L’autunno a Chernobyl – #5: solitudine a Pripyat
Siamo quasi giunti alla chiusura di questo viaggio autunnale nelle terre contaminate della Polesia, la regione paludosa a nord dell’Ucraina.
La sera, il giorno successivo alla chiusura del tour, sedendo su un letto al dodicesimo piano di un hotel a Kiev, la mente tornava ai primi momenti di quella giornata. Dovendo connettere tra loro, con un filo narrativo, gli episodi più significativi, stabilisco un punto d’inizio a Chernobyl, al centro della tavola imbandita per la terza colazione.
Al contorno standard del primo giorno si aggiunse l’uovo e l’insalata russa, confermando che “se non lo si termina a cena lo si ritrova a colazione”. Una tale abbondanza calorica mi lascia immaginare che la cuoca sapeva della giornata iperattiva che ci avrebbe atteso.
Arrivò quindi la portata principale, un piatto stracolmo di farro, o un suo parente cereale, con sopra una fetta non trascurabile di pesce fritto. L’energia di un vulcano.
Ma pensò bene di aggiungere anche quattro grossi ravioli conditi al burro e pancetta. Con il caffe, unico componente appartenente a ciò che definiamo colazione nelle nostre terre, erano disponibili in abbondanza biscotti di due forme e sapori.
Mi alzai a fatica, pieno all’inverosimile,e feci bene, dato che fino al giorno successivo non vidi altro che snack e un pezzo di pane.
In linea con le previsioni meteo una leggera pioggia inumidiva il paesaggio. Ma i fotografi dalla pioggia cercano riparo, e cercammo quindi protezione nella città di Pripyat.
Al Pripyat Café, un tempo nodo vitale di transito per prendere il battello locale, ci vollero pochi minuti per esaurirne la conoscenza. Già ci avevo trascorso del tempo la scorsa primavera.
Dalla parte opposta della città si estende l’intero complesso della fabbrica Jupiter, di cui si è già detto nel racconto del precedente viaggio.
Poco prima di arrivarci la guardia indicò a fianco di un deposito i resti di un ragno metallico, impiegato per la rimozione di detriti radioattivi dopo l’esplosione del reattore. Destò curiosità ma vedendo che il contatore Geiger al suo contatto saliva fino a 100 microSievert, 500 volte il valore più comune nell’area, decisi che non era il tipo di oggetto con cui mi piace spendere tempo in dettagli della sua struttura e me ne andai più lontano.
Il tempo concesso per aggirarsi tra edifici amministrativi e reparti produttivi era di due ore e venti minuti. Tempo prezioso che preferii impiegare per un diverso programma più personale. Chiesi il permesso, ottenendolo, di andare, solo, in uno dei quattro settori della città. Fu un puro viaggio nell’abbandono totale, il più intenso delle mie campagne fotografiche.
Le visite turistiche erano state vietate, ed il perimetro chiuso della città non è frequentato da guardie. Vagando per Pripyat tornavo a sperimentare quella sensazione di estinzione di ogni forma vitale, o quasi, essendo quel silenzio tombale difficilmente interrotto da qualche volatile o animale selvatico in questa stagione.
I quartieri a Pripyat sono dominati dalle decine di metri dei palazzi, interrotti da edifici di due o tre piani, riservati a scuole, asili, negozi, attrezzature sportive, o svago.
Il settore a Nord-Ovest mi era quasi interamente ignoto.
Iniziai da un asilo. Un’ala mostrava i segni di un incendio, era quindi vuoto. Per dare un senso alla fotografia di abbandono e delle tracce di vita interrotta, vennero in soccorso un pianoforte, alcune scritte, disegni, elementi sufficienti per dare al sito una propria identità.
Tra un edificio e il successivo a Pripyat si cammina su vicoli interni a volte visibili, altre coperti da foglie, erbacce, fino ad insidiosi rovi, o persino alberi. A fianco dell’asilo c’era una scuola, a pianta quadrata. Dall’esterno assumeva le sembianze di uno scheletro vuoto. Andai quindi oltre, dove un asilo ricoperto di piastrelle gialle avrebbe offerto migliori spunti.
In un corridoio non molto illuminato una parete era ancora ricoperta da disegni in ottimo stato di conservazione, apparentemente tratti da fiabe.
La pianta del quartiere salvata nel cellulare indicava verso est altri edifici dall’aspetto interessante. A fianco della scuola uffici e aree coperte contenevano residui di materiale elettronico, schede, carcasse di monitors, alcuni cartelli di rischio radiazioni per ambienti di lavoro. La fretta, il buio, le condizioni del luogo mi spinsero ad esaurirne la carica di interesse, ed in breve mi recai sul lato adiacente, contiguo, ma apparentemente destinato ad altre attività.
Da un’ora e mezza mi muovevo nel quartiere e non avevo ancora udito un pur debole segnale di vita. Il silenzio era tale da udire gocce d’acqua cadere in un appartamento dei numerosi palazzi circostanti.
Era tempo di riprendere la via di ritorno verso il punto di incontro stabilito. Sul percorso, tagliando tra sepolti cortili dove compaiono telai di altalena, scivoli, e carcasse metalliche gettate dai balconi, fu ancora un basso edificio ad attrarre l’attenzione, o meglio dettagli quali una cassetta delle lettere aperta, la cabina telefonica logorata dalle intemperie, ed il giallo simbolo con falce e martello sul vetro di una finestra. Il tratto più caratteristico di cui vado in cerca in questa tipologia di edifici è qualche manifesto o cartello di propaganda. Lo trovai sulla parete di un corridoio. Ma era tutto troppo sporco e devastato per desiderare di rimanerci altro tempo.
In fondo al viale che si perde nella prospettiva ad imbuto creata dagli alberi ai suoi lati, il furgone bianco attendeva i membri dispersi del gruppo. Ebbi solo il tempo di salire sul tetto dell’edificio amministrativo della fabbrica Jupiter. La mancanza di protezioni laterali rendeva la salita un precipizio. Dal piano sopra l’ottavo una distesa vegetale ininterrotta lungo l’orizzonte si interrompe solo dove i condomini più alti superano le cime degli alberi.
Un colpo di clacson fu il segnale di raccolta. Lo stesso furgone in attesa mi servì per sottolineare le proporzioni dell’edificio e del paesaggio.
Alle 12:00 del 22 novembre 2011 si concluse questo prezioso viaggio di approfondimento nelle terre contaminate di Chernobyl. In questo ritorno la città di Pripyat è stata abbondantemente percorsa. Resta il desiderio di documentarne ogni singolo angolo, ed ancor meglio di poter conversare un giorno con coloro che quei corridoi e viali li hanno percorsi fino ad aprile 1986.
Tornando verso il campo base di Chernobyl passammo a raccogliere i due compagni che, pagando , si erano concessi un tour di un paio di ore all’interno delle centrali. Sarebbe certamente utile ed interessante entrare nelle due sale di controllo da loro visitate, nel blocco 2 intatto la centrale è solo spenta, mentre la sala di controllo del blocco 4 del reattore esploso mostra segni di avanzato deterioramento.
Si concluse questo secondo viaggio percorso per le vie di terra. Proseguì dopo il ritorno al campo base di Chernobyl, dove attendeva un incredibile volo in elicottero. Fu un capitolo a sè per i viaggi di Derelicta.net, e sarà raccontato nel prossimo articolo che chiude le cronache di Chernobyl in autunno.