L’autunno a Chernobyl – #4: sui tetti di Pripyat
“Occhi bianchi sul pianeta Terra”, era il titolo di un film di fantascienza, del 1975. Come il protagonista, in questa terza giornata nella Zona di Esclusione, ebbi la sensazione di vivere la condizione dell’unico superstite.
A Pripyat la cancellazione delle visite turistiche, unita alla rarissima presenza di personale di sorveglianza, permette di andarsene soli in quartieri dove regna una solitudine e silenzio assoluto.
Flashback. La solita colazione. Solita per quantità, le pietanze presentavano invece qualche variante giornaliera.
A stomaco pieno, e superato il check point che separa Chernobyl dal cuore della contaminazione, ci dirigemmo al centro amministrativo delle centrali.
Due di noi dovevano ottenere il difficile permesso per una visita alla centrale nucleare, con l’eccezione delle zone circostanti al reattore 4 esploso, per evitare di tornare a casa con un organo in più nel corpo.
C’è un’attività continua nell’area, che può smentire in parte la pericolosità del permanere per un periodo limitato di tempo. Diversamente gli effetti della radioattività in piccole dosi con esposizione continua comportano rischi di lungo termine spesso minimizzati o nascosti da fonti ufficiali. Chi opera nell’area svolge l’attività in base a turni che permettono di interrompere questa terapia negativa quotidiana prolungata.
Il tempo fu interamente speso a Pripyat, che nella giornata umida, grigia ed uggiosa dell’autunno inoltrato esprime al meglio la propria natura morta.
Passato il check point sul confine della città, numeri digitali mostrano la rilevazione in continuo della radioattività, attorno ai 50 micro Roentgen, circa 0,5 microS, un valore non così elevato rispetto alla radioattività naturale di fondo presente in diverse città italiane.
Si entrò nei brevi rettilinei che tagliano i quartieri, ai cui lati sorgono edifici velati dagli alberi spogli che lasciano intravedere una parte delle loro vuote architetture.
Avendo già visitato Pripyat ebbi il permesso e il tempo di andarmene in avventura solitaria, scoprendo angoli e punti di vista a me nuovi.
Il Palazzo delle Telecomunicazioni semi distrutto e spoglio mi risultò abbastanza monotono.
Dirigendomi quindi verso più interessanti esplorazioni della città fui attratto da uno dei due palazzi da sedici piani su cui campeggia il simbolo della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina.
Superate le cassette delle lettere che avevano attirato la mia attenzione, e salendo poi velocemente le scale, feci una pausa per verificare alcuni appartamenti, di varie dimensioni, ma all’interno non si trovava nulla che rimandasse alla loro storia passata, fatta eccezione per alcuni arredi. Provo ad immaginare la ragione di una simile pulizia, probabilmente gli abitanti stessi sono tornati nelle loro abitazioni, prelevando tutto ciò che fosse possibile recuperare ma sorprende che non ci sia una confusione di carta, rifiuti, stracci, come accade in edifici destinati a scopi non residenziali.
Salendo le nuvole basse velavano sempre più il panorama fino ad inghiottirlo completamente con un denso velo bianco. Sul retro la vista dall’alto della clinica per bambini stimolava la mia curiosità. Da lassù gli interni li potevo solo immaginare. Ma il vasto campionario accumulato nella memoria di luoghi in abbandono non mi rendeva difficile visualizzare quelle stanze e le loro condizioni.
Ridisceso e presa la via verso la clinica si confermarono in parte le mie aspettative. Era discretamente ricca di singoli dettagli, meno dei padiglioni dell’ospedale, ma per nulla vuota quanto il sanatorio visitato il giorno precedente.
C’erano alcune attrezzature chirurgiche, qualche arredo, scritte russe, qualche documento, disegni sulle pareti, molto di ciò che ci si potrebbe attendere ma con qualche spunto in grado di sorprendere. Il tempo permesso stava però scadendo. Questa totale possibilità di movimento di cui godevo unita al tempo limite concesso la percepivo a volte come una libertà vigilata, ma è già questo un lusso di cui goderne in una città per molti aspetti unica al mondo.
Scontata questa periodica libertà ne riguadagnai un’altra. Nel tempo limite di un’ora e mezza mi diressi con due compagni verso un asilo non visitato precedentemente. Situato in mezzo ad un gruppo di palazzi si riconosceva per la diversa altezza. Le strutture di servizio si distinguono facilmente dai numerosi edifici residenziali di 8, 10, 16 piani.
Più che segni di vandalismo Pripyat presenta una estrema confusione, per le ripetute visite di chi per curiosità, per necessità, per ricavarne un beneficio, muove, sposta, preleva, rompe. Il risultato è un accumulo disordinato di fronte al quale la composizione dell’inquadratura non trova elementi utili al racconto visivo se non caos generalizzato.
Mi sento sempre particolarmente attratto dall’abbondanza di tracce della propaganda comunista nei paesi appartenenti all’ex blocco sovietico. Era pervasiva, presente tra gli abitanti in ogni momento della loro vita sociale, con l’occhio divino di Lenin che vigilava costantemente sulle anime figlie della Rivoluzione.
Trovai il compagno di stanza inglese intento a sfogliare un album con fotografie originali, uno dei molti ritrovati nelle scuole e asili di Pripyat. Materiale utile per un museo della città, che come altre tonnellate di materiale appartenuto a cinquantamila persone è stato distrutto, o diversamente resta a marcire sul pavimento. L’album è un prezioso reperto contenente molte fotografie in bianco e nero di alunni e insegnanti in posa, o durante saggi scolastici, risalente agli anni Settanta.
Lasciai l’asilo con un certo dispiacere. Spesso la permanenza in un edificio di questa ricchezza richiederebbe una intera giornata spesa per la sua documentazione. Tra minuscole sedie, bambole, culle, materassi, scarpette, mi feci strada verso l’uscita, per riprendere il corso della giornata.
Ed ancora, mentre il programma prevedeva la già nota piscina ed una adiacente scuola media, mi diressi verso altri e nuovi soggetti in questa cornucopia di abbandono.
Scelsi un edificio di dieci piani, in Sportivnaya Ulitza al numero 8. Sul tetto nuovi e diversi punti di vista sulla città dimostravano che Pripyat ha un potenziale enorme per scoprire il paesaggio urbano, tanti sono i punti elevati da cui è possibile osservare la città. E la piscina stava proprio sotto, secondo una visuale nuova.
E’ curiosa l’osservazione dal decimo piano, la città appare come rasa da una lama su cui svettano i pochi palazzi con numero di piani superiore. E’ un’operazione di livellamento architettonico, ma data l’estensione del territorio urbanizzato non manca del privilegio di potersi perdere in quella vista d’occhio estesa, mentre tra gli spazi dei palazzi altre curiosità emergono, e dietro, sfumato nei colori dei boschi d’autunno, o dal sempreverde delle conifere, compare l’orizzonte dei trenta chilometri approssimativi che costituiscono il confine della zona vietata.
Cercai Duga-3, l’incredibile e gigantesca antenna, e la trovai, un’immagine flebile, emergente dalla foschia ma pur sempre in grado dalla distanza di dimostrare la sua superiorità ed imponenza.
La giornata si svolgeva come se ci muovessimo secondo un piano che ci portava sempre più in alto.
E non restò quindi che salire al sedicesimo piano di un noto edificio , uno dei pochi palazzi di quell’altezza, che possiede il punto di osservazione privilegiato della vista a nord ovest della città, pertanto in grado di dominarla completamente, lasciando svettare sul suo sfondo l’area dei quattro blocchi delle centrali. E separata, sulla destra, la bianca fabbrica Jupiter.
La foschia orma scomparsa aveva aperto un sipario. E’ questo uno dei potenti stimoli per l’immaginario dell’abbandono che andavo ricercando in questo secondo viaggio a Pripyat nella stagione autunnale. E lo trovai, completo e definito come fosse stato progettato da un ingegnere della visione.
Mentre un freddo vento spirava sul nero piano di guaina del tetto, mentre la vertigine saliva avvicinandosi ai bassi bordi del suo perimetro, mentre la luce scendeva velando con un poco di azzurro le bianche, rosate, grigie pareti di molti palazzi, ripercorrevo i miei pensieri di apertura, provando il piacevole senso dell’annullamento.
Scesi da quel bianco monolite di via Lesi Ukrainky, numero civico 52, e restò solo una mezzora di luce utile per entrare in una scuola, scelta un po’ a caso nei dintorni, nell’attesa che pochi altri completassero un programma prestabilito.
La scuola già la conoscevo, ma difficilmente un luogo qui esaurisce le curiosità dei sui interni. Trovai infatti in un aula un paio di libri, tra gli altri rivelati alla brutale luce del flash, in cui la propaganda di partito rivelava la sua pervasività anche nelle materie di insegnamento.
Al termine di queste giornate ci si trascinava sempre stanchi sul sedile del furgone, per riprendere la via di ritorno verso l’alloggio per visitatori a Chernobyl. In quel tragitto di alcuni chilometri l’unico intervallo è dato dai due check point, quello di Pripyat in cui la sbarra si alza senza ostacoli, mentre quello successivo prevede una misurazione del livello di radioattività dei pneumatici. Per tutto il resto del viaggio i numerosi stimoli della giornata chiudevano ciascuno dei partecipanti nel proprio involucro di emozioni vissute, gustando proiezioni interiori che solo questa terra dannata può offrire.
A cena che ci si doveva attendere di più? Nulla, altre varianti ormai consolidate di una cucina che con i suoi alti, pochi, e bassi, nemmeno tanti, andava a riempire il ventre di uomini in cerca di scoperte. Ma si, ve la mostro una volta ancora una parte di questa tavola imbandita.
Terminavo questa ennesima cronaca sul mio fedele netbook, accompagnata da due bottiglie di birra, e dal ronzio del frigorifero. Fuori tutto taceva da alcune ore, sebbene fossero le 21:40.
Segue: #5 solitudine a Pripyat